Il suo volto era completamente ricoperto di sangue, eppure manteneva ancora tutta la sua eleganza e regalità. Pareva non provare nessun tipo di dolore. Aveva gli occhi carichi di rabbia, lacrime, tristezza e il mascara si stava sciogliendo oscurandole quello sguardo assente, ma non meno dolorante. Le mani erano bianche, simili a quelle di un cadavere, ma soltanto perchè erano appena state lavate con cura, attenta a non nascondere più tra le unghie la pelle del viso, che abilmente avevano grattato via, ma senza causare il minimo gemito. Si guardava allo specchio, ancora e ancora, ma la sua immagine le dava ancora fastidio, non riusciva in nessun modo a cancellare quello sguardo. Aveva da mesi la stessa espressione, si odiava, ma questa volta almeno aveva un motivo reale per stare male. Si era completamente graffiata, voleva soffrire a tal punto da riuscire a dimenticare quello schifo di sensazione di disagio, ma non se ne andava, no.
Il disagio causato dal provare incessantemente quel sentimento di insoddisfazione, di lancinante guerra interna alla sua anima. Non ce la faceva più, odiava non poter combattere questo nemico, perchè in realtà questo non esisteva o almeno non era possibile da individuare.
“Amore che fai? Sono ore che sei chiusa in bagno! Tutto ok?”
Il disagio prese possesso della sua mente, misto alla paura di essere scoperta; sua madre non avrebbe mai capito.
“Certo mamma arrivo subito, stavo soltanto facendo la vasca”.
L’acqua cominciò a scorrere così da togliere via ogni prova e da tranquillizzare sua madre al di là della porta. La mattina seguente dovette nascondere in tutti i modi i danni causati perchè nonostante il suo odio verso se stessa, non voleva affrontare le domande e soprattutto gli sguardi altrui, capaci solo a giudicare e mai a provare a comprendere o semplicemente a lasciare vivere.
I giorni trascorsero, uguali e monotoni, senza che niente accadesse per spezzare l’apatia di quei momenti infiniti, per interrompere quella quieta banalità che le logorava l’anima. L’esperienza di quella sera sembrava ormai trascorsa, ma non si placava in lei la sensazione di odio profondo verso se stessa.
Rebecca era bella, a suo modo, con due grandi occhi neri che parevano sempre lontani, persi in un proprio mondo, che le davano un senso di altezzosità. Niente pareva poterla scalfire, studentessa perfetta, capace in tutto quello che facesse, ma, nonostante questo, non si sentiva mai abbastanza, non riusciva a vedere niente oltre al buio che si era creata e che la circondava. Niente riusciva a farla stare bene, non percepiva qualcosa di importante nella vita che stava facendo e tutto, anche la più semplice parola, le sembrava inutile e banale, come se il mondo fosse soltanto un buco nero al quale lei avrebbe dovuto ricongiungersi, diventando anche lei nulla.
Una sera la situazione precipitò di nuovo. Era appena tornata a casa dopo aver trascorso una serata come tante: cena fuori con le amiche, qualche bevuta, risate, parole, che però parevano tutte senza significato, svuotate di ogni loro più piccolo piacere. Aveva ascoltato le conversazioni, aveva anche riso con le altre, ma la sua mente era lontana da quel luogo, da quel momento, assopita da un senso di noia e dolore. Ad ogni suo passo vedeva il pavimento sgretolarsi sotto i suoi piedi, le mattonelle, instabili, vacillavano al suo passaggio, ma era come se non le importasse: sarebbe volentieri precipitata nel baratro che le sottostava. Il vino stava cominciando a fare effetto, ma non serviva a farle perdere la consapevolezza di quella sofferenza intima che stava per sfociare in un altro attacco contro la sua persona. Era come se due Rebecca si scontrassero nella sua testa, urlando. Una prese presto il sopravvento, gridando ancora più forte.
“Sei una perdente, un’illusa, credi davvero che qualcosa possa farti uscire da questa situazione? Non ti preoccupare, nonostante tutti i tuoi sforzi, non riuscirai mai a essere felice.”
Corse in bagno. Piangeva.
Rebecca piangeva chinata sul lavandino, abbandonata tutta la sua forza e la sua caparbietà nel non mostrare mai il suo dolore. Non aveva il coraggio di alzare gli occhi. Cosa avrebbe visto stavolta lo specchio? Due occhi vuoti, persi, ma diversamente dall’altra crisi, consapevoli di aver toccato il fondo. Un viso pallido, stanco, come se l’anima le fosse uscita dalla bocca insieme al resto della cena. Era debole e le gambe le tremavano incessantemente, come in modo incessante la rabbia iniziava a penetrarle attraverso la pelle. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, per soffrire ancora, per punirsi, per espiare la sua colpa. La colpa di non riuscire a combattere se stessa, di non riuscire a vincere contro quella sua parte autodistruttiva che la voleva soltanto vedere finire, in modo che anche il mondo e le sue ombre sarebbero scomparse. D’un tratto il corpo non riuscì più a sorreggere il peso di tutto quello stress e Rebecca svenne, come se una forza inesorabile la spingesse a terra, atterrita e inerme.
Aprì gli occhi. Vide dinanzi a sé una sagoma distesa a terra non ben delineata, ma che le pareva di conoscere. Si avvicinò fino al punto che riconobbe in quell’ombra se stessa. Stava lì, sdraiata come un morto, e quell’immagine la fece inorridire. Si avvicinò ancora, quasi a toccare quel corpo freddo, ma non fece in tempo a sfiorarlo che questo si era alzato e la guardava fissa, con quegli stessi occhi neri che prima aveva visto riflessi nello specchio. Non pronunciava una parola eppure parlava; l’altra Rebecca che prima aveva sentito uralre nella sua mente era lì davanti a lei.
Oppure no.
Era un corpo magrissimo, scavato nella pelle del volto, incapace di sorreggersi e di fare anche un solo piccolo passo. Era debole, indifeso, e non aveva nello sguardo quella superbia e quell’ardore che brillavano, anche nei momenti peggiori, negli occhi di Rebecca. Percepiva provenire da quel fantasma soltanto dei dolorosi sospiri e ad un tratto capì. Capì che quella era realmente se stessa, era quella se stessa che sarebbe diventata se avesse continuato a ferirsi come stava facendo ormai da mesi, era la sua anima che le faceva vedere a che cosa, da sola, stava andando incontro. Si era deturpata a tal punto da divenire un pezzo di pelle, un corpo lacerato e smembrato da dentro, svuotato di tutto ciò che era e incapace di far brillare ancora, attraverso gli occhi, la sua vera personalità. Sì, era lei, ma allo stesso tempo non lo era, era un mostro che non sarebbe mai dovuto esistere.
Ebbe paura. Mai in tutto quel tempo si era soffermata realmente a pensare a ciò che stava accadendo, a come la sua vita le stesse scivolando dalle mani, spinta soltanto dalla voglia di placare quell’insensato senso di vuoto. Ma era davvero questo che voleva diventare? Un corpo inanimato che nonostante l’odio che provava verso se stesso non era riuscito a finirsi del tutto e quindi si era ridotto alla morte, senza morire realmente. E a cosa era giunta? Quell’essere stava evidentemente continuando a soffrire. Non era in quel modo che avrebbe potuto scacciare quei sentimenti, sarebbe scesa sempre più a fondo uccidendo anche l’unica cosa che amava di se stessa: la sua forza.
Adesso provava per quell’ammasso di ossa ancora più odio e delusione, stava lì, tremante, vinta dalla sua stessa presenza ed era debole, come lei non avrebbe mai voluto essere. L’ombra all’improvviso iniziò ad urlare, con una voce che non sembrava possibile provenire da quella bocca lacerata. “Aiuto, salvami, non permettere che questo accada, SALVATI!”
Quando si svegliò, si trovò sdraiata in un freddo letto di ospedale. La testa le pulsava ma soprattutto le causava un male tremendo. Aveva dormito per un intero giorno. Non si ricordava di come era arrivata lì, ma i fatti della sera precedente erano bene stampati nella sua mente, come un incubo a occhi aperti che le continuava ad apparire, un’immagine viva che non voleva lasciarla. Ma sapeva che tutto quello era avvenuto per un preciso motivo. Aveva sognato la sua più grande paura ed aveva finalmente capito che cosa volesse la vera Rebecca. Un viaggio che la sua testa, turbata e stordita dalla botta, aveva generato obbligandola a riflettere.
Sua madre entrò nella stanza grigia, con il volto solcato da lacrime silenziose, che scorrevano inesorabili e che parevano lasciare una ferita dolente.
Non parlava. La guardava ammutolita, ma Rebecca sentiva ancora più forte il rumore dei suoi pensieri. Doveva averla trovata la mattina precedente svenuta in bagno, coperta dal sangue che le era sgorgato dalla ferita alla tempia. Era preoccupata e spaventata, come se tutto il suo mondo fosse stato distrutto dal vedere sua figlia accasciata a terra. Sentire quello sguardo su di lei le provocò un dolore lancinante, non paragonabile ai suoi stupidi problemi. Una persona stava realmente morendo per le sue azioni, non era giusto che a causa sua, sua madre si trovasse lì impaurita e traumatizzata. Non avrebbe mai più provato a farsi del male, avrebbe imparato a parlare, a chiedere aiuto, a provare a risolvere le sue frustrazioni, ma mai più avrebbe permesso che sua madre soffrisse per lei. Rebecca tese una mano verso sua madre. La donna si avvicinò, la prese e la ragazza scese dal letto senza neanche una parola. Iniziò a camminare, sorretta dalla madre e niente le pareva più così difficile. Aveva appena intrapreso un cammino verso l’accettazione di se stessa, ma senza abbandonare l’abbraccio.
Un passo dopo l’altro. Un passo alla volta.

Questo è un racconto che ho scritto quando avevo 17/18 anni. Lo hanno pubblicato in un libricino minuscolo insieme ai vincitori del concorso letterario a cui mi aveva iscritto la professoressa di italiano del liceo. Non credo l’abbia letto nessuno, oltre la mia prof, i signori della giuria del concorso e mia madre, dato che quando ci hanno chiamato per la pubblicazione i miei genitori mi hanno dovuto accompagnare alla premiazione e pareva strano non far loro leggere il tanto agognato racconto. Evidentemente me ne vergognavo molto al tempo, ho sempre cercato di non mostrare troppo la mia parte “debole”, parte che giudicavo molto da giovane, con la quale, anche adesso, non ho uno splendido rapporto, diciamo che litighiamo spesso. Che poi la mia parte debole…mi sembra di più adesso la mia parte sensibile, la mia parte dolente, la parte che non si accetta, la mia parte che risuona con il dolore e la sofferenza, che tende a cadere nei baratri della tristezza e della depressione, in continuo combattimento con quella forte, altezzosa, regale, imperscrutabile e intoccabile che ho sempre creduto essere la parte migliore di me da presentare al mondo.

A parte il valore letterario di questo racconto che può essere discutibile e lasciando correre le numerose volte che ho usato la parola “parere” invece che “sembrare”, forse credevo facesse più figo e importante scrivere con parole di uso poco comune, rileggendolo mi è venuta voglia di scoprirmi un po’ e di portarlo in uno dei miei articoli nel blog.
Primo perchè, crescendo, la paura del giudizio e di cosa pensano gli altri di me o dei miei scritti si è vorticosamente abbassata e, grazie alla condivisione e all’apertura in gruppi di persone accoglienti e amorose, ho imparato ad espormi un po’. Perchè per dire la mia mettendo confini e urlando le mie ragioni l’ho sempre avuta la voce, ma per parlare di me stessa scoprendo le parti morbide e tenere, ho sempre avuto timore, e un po’ ce l’ho ancora adesso, ma va bene così.
Avevo timore di sembrare esagerata nella mie manifestazioni di dolore e sofferenza, avevo paura di non essere capita, e di essere fraintesa o sminuita, pensavo che il dolore fosse una cosa privata, quasi da tenere dentro se stessi con pudore e morigeranza. Avevo anche tanta paura che dirlo lo rendesse più grande, che ammetterlo potesse invadere anche tutte le altre aree della mia vita dove invece avevo il controllo e risultavo forte, sicura, splendente.

Crescendo ed andando in terapia ho capito che questa ultima cosa è assolutamente il pensiero più stupido e più dannoso che avessi mai introiettato nella mia esistenza. Trattenere un dolore senza esprimerlo lo fa diventare gigantesco, intollerabile, immaneggiabile, terrorifico. L’unico modo di gestire una sofferenza è parlarne, buttarla fuori, perchè anche se per qualcuno può sembrare banale e ridicola, non è detto lo sia anche per chi quel preciso ascoltatore, soprattutto se chi ti è vicino in ascolto è un professionista o sei in un gruppo sicuro di psicoterapia. Il dolore se detto e condiviso sembra come dissolversi in una nebbia emotiva, come se da nuvola scura e densa dentro di te si potesse dissipare in fumo bianco e rarefatto toccando i corpi delle altre persone. È una sensazione strana, non so spiegarvela meglio di così, ma perde anche un po’ di grandezza quando lo dici quel dolore, perchè quando è serrato tra i tuoi denti sembra dimenarsi e spingere per uscire come un orso in gabbia e invece poi, quando liberato, si trasforma in un orso felice e libero, che non vuole far del male a nessuno.

Però in adolescenza non riuscivo proprio ad aprirmi su certe cose: ero preoccupata di perdere la mia immagine; ero preoccupata di non essere accettata così come ero; avevo paura che le amiche mi avrebbero ritenuta pesante e noiosa, da evitare; ero sicura che i miei genitori fossero degli alieni assolutamente incapaci di sentire quello che sentivo io, di provare le mie stesse emozioni. Che cosa ridicola a pensarci adesso no? Ma che ci vuoi fare, l’adolescenza è davvero un momento complesso e intenso.

Vorrei allora arrivare al punto del mio articolo. Ho voluto condividere qui questo mio racconto per dedicarlo a tutti gli adolescenti di adesso e anche a tutti gli adolescenti interni degli adulti che leggono. Vorrei dire ai ragazzi e alle ragazze che sentire tutte quelle cose, dal dolore, alla tristezza, alla non accettazione di se stessi, per quel corpo, per quel modo di comportarsi, per quel tipo strano di musica che ascoltate solo voi, per quei fumetti osceni, per quel desiderio strano di farsi del male, o di provare dolore fisico, che provare tutti quei sentimenti è normale e che potete farcela. Potete sentire tutte quelle emozioni e sopravvivere, potete sentirle essendo grati della vostra capacità di vibrare con le corde del vostro cuore, e che non ne verrete sopraffatti. E vi assicuro che continuerete a provarle anche dopo l’adolescenza, e sarà un dono, una prerogativa da apprezzare, e, per fortuna, nel frattempo, vi sarete equipaggiati anche di tanti più strumenti con le quali affrontarle.

Se ora e adesso da giovani, da ragazzi, vi sentite sopraffatti, parlatene con qualcuno, i vostri genitori capiranno e se non lo faranno, ci proveranno mille volte a capire e sennò chiederanno a voi cosa fare. E voi ditegli che volete solo essere ascoltati, che volete solo condividere il peso di queste emozioni invadenti che occupano troppo spazio, che volete essere solo rassicurati che non vi schiacceranno a terra, che non prenderanno il sopravvento. E se così non va, andate a scuola e parlatene con un professore, parlatene con i vostri amici, parlatene con uno psicologo, andate in un centro giovani, in un consultorio, parlatene con il vostro allenatore. Esistono adulti ed esistono professionisti con cui poter parlare, esistono persone in grado di starvi accanto e che proveranno a capire sempre, per darvi l’attenzione e la cura che vi meritate. Probabilmente non capiremo proprio tutto, il tempo è passato, i dolori sono mutati e le sfide si sono moltiplicate, ma proveremo sempre a capire e, se non ce la facessimo, comunque vi staremo vicino, vi ascolteremo, e vi sosterremo nelle vostre scelte.

E voi adulti, per favore, ascoltate i silenzi di questi ragazzi, domandate e chiedete cosa pensano e soprattutto cosa sentono i vostri ragazzi. Rischiate di essere etichettati come rompiscatole o come invadenti, rischiate di essere mandati a quel paese, ma provateci. Io non dico di essere ingombranti e di imporvi a forza nelle loro vite interne, nelle menti degli adolescenti, e anche dei bambini; ma proponetevi come adulti disposti all’ascolto. Dite che siete lì per loro se lo desiderassero, che siete pronti a consolarli e ad abbracciarli quando ne avranno bisogno. State lì con i vostri limiti, anche se non capite, anche se vi sembrano motivi esagerati o banali, anche se non la pensate come loro e vorreste solo correggerli o dire che passerà e che dopo, dopo, tutto si risolverà. State lì, ora, in questo momento, nel momento in cui ve lo chiedono, non serve il dopo, non serve sapere che da grandi passerà (che poi non è vero perchè da adulti passeranno quei drammi, quelle sofferenze, quelle delusioni, ma ce ne saranno altre, più grandi, più complesse, più frustranti, e ci farebbe parecchio bene anche da adulti avere qualcuno disposto a stare solo lì, ad ascoltarci, senza parlare, senza giudicarci, solo con la presenza).

E ancora vorrei dire a voi, ragazzi e ragazze, vorrei parlare a quelli che si sentono più sensibili e fuori dal coro. Voi, che oltre ad essere nella tempesta dell’adolescenza e del cambiamento come i vostri coetanei, siete anche in balia di voi stessi, dell’avere la fortuna e la sfortuna di possedere la capacità di sentire più degli altri, voi che sentite ogni flebile vibrazione del vostro cuore, che combattete contro una parte di voi stessi cattiva e aggressiva che vuole solo cancellarvi. A voi che non vi piacete e che vi odiate, che vi sentite fuori posto, fuori epoca, in un corpo sbagliato che non è il vostro, che sentite pulsioni che non capite e che non vorreste, che vi giudicate costantemente perchè vi credete brutti, grassi, sbagliati, bassi, alti, deformi, troppo teneri, troppo sensibili, troppo deboli, poco appariscenti, poco entusiasti, poco intelligenti, poco femminili, poco maschili, poco come vogliono gli altri, come vogliono i genitori, come vuole la società in cui viviamo. A voi che vi sentite stretti ovunque e che vi sembra che il mondo potrebbe stare meglio senza di voi, a voi dico che io vi amo, vi amo già tutti anche se non vi ho ancora parlato, amo i vostri moti emotivi e amo le vostre urla, amo i vostri pianti e la vostre canzoni tristi, amo i vostri diari e i vostri dipinti. Vorrei leggere ogni vostro racconto, vedere ogni vostro disegno e ascoltare ogni vostra canzone. E sono sicura al cento per cento che non sono solo io ad avere questo desiderio.

Per questo fatelo, esprimetevi, e scrivete e cantate e suonate e ballate e poi fatevi vedere al mondo, come finalmente ho fatto io pubblicando questo piccolo e polveroso racconto. E amate, amate tanto e amate tutti, chi volete, chi più vi piace, uno alla volta o 50 amori insieme, non importa. Perchè tanto ci sarà sempre chi vi giudicherà, chi vi screditerà, chi dirà che fate schifo, che non valete niente, che quello che fate non vale niente. Ci sarà sempre un padre troppo impegnato, una madre disattenta, un fratello nel suo mondo, un amico che c’è ma che non può sopperire a tutto. Ma ci siete voi per voi stessi, che potete amarvi come siete, che potete amarvi un po’ a pezzi, odiandone altri, che mentre si cresce poi magari si invertono i pezzi e amiamo quello che prima ci sembrava schifoso e odiamo quello che prima ci faceva apparire forti e indistruttibili. E ci sono persone come me che non vedono l’ora di vedervi, che non vedono l’ora di scoprire le vostre parti magiche tenute da sempre nascoste. Perchè siete AMABILI e AMATI solo per essere “ESSERI UMANI”, perchè io e miliardi di altre persone vi amiamo e vi ameranno proprio per essere quel preciso e specifico essere umano che siete.

Ebbene, sono arrivata alla conclusione di questo mio soliloquio. Lo so esagero sempre quando si parla si questi temi, ma credo che ognuno dovrebbe leggersi queste parole o almeno avrebbe dovuto sentirsele dire quando era bambino, quando era adolescente, ma anche ora da adulto. E dovremmo ripeterle spesso ai nostri ragazzi, ai nostri alunni, ai nostri nipoti. E perchè no, ripeterle sottovoce, costantemente, la mattina, appena svegli, ai nostri bambini interiori, ai nostri adolescenti interni, che sono ancora dentro di noi, che hanno ancora bisogno di essere accolti, amati e supportati.

Disegno dell’artista @agathesorlet

Musica consigliata –> “Alone” Melancholia